Notting Hill Carnival

Notting Hill Carnival, uno degli eventi londinesi piu’ attesi.
Si celebra sempre l’ultimo weekend di agosto, tutti gli anni, da circa 50 anni. Secondo gli organizzatori è il carnevale piu’ grande d’ Europa, e dopo aver visto strade stra-piene e persone arrampicate ovunque, credo che abbiano ragione.
Giusto per darvi un’idea:

E’ nato negli anni ’60 in risposta alle pesanti condizioni di subordinazione in cui viveva la comunità caraibica. All’inizio era un semplice evento locale, ma con il passare degli anni sempre piu’ persone hanno cominciato ad apprezzarlo e a frequentarlo. Se ci siete andati, vi sarà facile capire il suo successo. Se non ci siete mai andati…andateci!

Per due giorni Notting Hill si trasforma. Le tranquille stradine residenziali diventano improvvisamente un’immensa discoteca all’aperto, con tanto di impianti stereo e “ristoranti” (piu’ che altro tendoni ai lati delle strade, con barbeacue con fiamme altissime, perchè se il pollo non è carbonizzato a quanto pare non piace!) pronti a servirvi l’immancabile jerk chicken.

Circa tre anni fa vivevo proprio li a Notting Hill, e per due giorni il mio appartamento ha tremato (non in senso figurato…la musica era talmente alta che la casa tremava per davvero, e se avete presente le case inglesi, non vi sarà difficile capire perchè!) al ritmo di musica caraibica e le stanze erano piene di fumo (proveniente dal jerk chicken e non solo)…che esperienza.

L’atmosfera è elettrica, l’alcohol scorre a fiumi, la gente aumenta sempre di piu’ (quest’anno c’è stata un’affluenza di un milione di persone), ci sono tantissimi poliziotti, ma tuttosommato si percepisce un’aria di festa e di libertà difficile da trovare altrove.

Cio’ che mi stupisce – positivamente, si intenda! –  è che un evento del genere sia organizzato (ma piu’ che altro ben tollerato) in una zona abbastanza posh. Un po’ come se a Roma si organizzasse una parata del genere tra quartiere Trieste e Parioli…ve lo immaginate? A Notting Hill le strade vengono chiuse per 2 giorni, le metropolitane limitrofe non sono accessibili per gran parte della giornata (alcune sono chiuse altre sono utilizzabili solo per uscire), la maggior parte dei negozi rimangono chiusi. Nonostante questo nessuno si lamenta, e anzi, chi vive li coglie l’occasione per dare sfogo al proprio “istinto imprenditoriale” vendondo da mangiare e facendo pagare 1£ per andare in bagno (si, a casa loro!).

Ovviamente le strade si sporcano. Come potrebbe essere altrimenti? Un milione di persone che mangiano e che bevono per due giorni di seguito, è ovvio che alcuni angoli si riducano cosi’:

Ma tanto tutti sanno che le strade verranno pulite, gli impianti stereo smontati, e quel milione di persone se ne tornerà a casa, quindi perchè non sfruttare questi due giorni per divertirsi?
E perchè non coinvolgere qualche poliziotto in una sexy dance caraibica?

Questa scena mi ha davvero fatto sorridere e allo stesso tempo pensare “e se fosse successo in Italia? Come avrebbero reagito il poliziotto e i suoi colleghi? “. Ovviamente non possiamo geeralizzare perchè mi rendo conto che una reazione ad un “attacco” del genere sia del tutto soggettiva, pero’ non mi è mai capitato di vedere una cosa simile nel mio paese.

Insomma, per farla breve…due giorni di ordinaria follia, musica e cocktails. Un paio di persone hanno anche rimediato qualche coltellata, al che ho subito pensato “cavolo, ma allora davvero è pericoloso andare li”, ma poi ho visto in tv l’intervista di un poliziotto che diceva “l’evento è stato estremamente pacifico, ci sono stati un paio di episodi violenti per lo piu’ tra bande, ma considerando l’elevato numero di partecipanti, non credo si possano considerare dati allarmanti”. Se lo dici te!
Effettivamente sarebbe esagerato fare del terrorismo, anche perchè si rischierebbe di lanciare un messaggio del tutto distaccato dallo spirito dell’evento, pero’ ancora una volta ho pensato: “e se fosse successo in Italia? Non si sarebbe già parlato di allarme sicurezza etc etc etc?” Siamo esagerati noi o sono un po’ superficiali qui?

Per concludere il succo di tutto cio’ è: ma perchè qui sembra tutto piu’ facile, la gente ha uno spirito di adattamento maggiore e nessuno si lamenta?

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Lo scozzese volante

Da ragazzino ero un buon tifoso di ciclismo oltre che di calcio.

Data la mia passione per giornali e statistiche, quando tornavo a casa da scuola (erano i tempi delle medie), non perdevo l’occasione di comprare e leggere uno-due giornali sportivi e trascorrevo cosi’ il tempo, nell’attesa di prendere quel fottuto autobus romano che passava, ad essere puntuale, ogni 37 minuti.

Ricordo ancora con chiarezza quell’articolo microscopico che parlava di un certo Graeme Obree, un tizio che aveva appena battuto il record dell’ora, ossia una delle competizioni storicamente piu’ prestigiose del panorama ciclistico, utilizzando una bicicletta autocostruita.

Il precedente record era dell’italiano Francesco Moser ed era stato quasi dieci anni prima.

Obree aveva calibrato il proprio strumento di gara secondo le proprie esigenze agonistiche; si invento’ una nuova posizione a uovo cosi’ da migliorare l’ aerodinamica durante l’ora di gara contro il tempo; tale posizione fu poi bandita, in modo troppo cinico, dall’Unione Ciclistica Internazionale.

Graeme Obree

Graeme Obree (da Wikipedia)

Ebbi una sensazione strana nel leggere l’articolo: sembrava quasi che il nuovo recordman avesse rubato o truffato nell’inventarsi questo nuovo modo di correre e questa nuova bicicletta.

Il tono dell’articolo era di questo genere “Un amatore scozzese venuto dal nulla si e’ inventato una nuova posizione con una bicicletta al limite della regolarita’ autocostruita con pezzi di lavatrice e ha battuto lo storico record del grande Moser”.

In effetti Obree non era nel circuito dei ciclisti professionisti, era davvero un semisconosciuto. Da qui a farlo passare per un “non atleta”, come molti giornalisti fecero, pero’ ce ne corre…
Successivamente lo scozzese vinse altre competizioni importanti su pista, quali la 4 km ad inseguimento, battendo talvolta l’inglese Boardman (ben piu’ famoso e “professionista” di lui) e l’italiano Colinelli, un medagliato d’oro delle Olimpiadi di Atlanta; nonostante cio’ il fatto che non avesse uno stile considerato “normale”, faceva si’ che tutti gli organi di informazione italiani lo considerassero una specie di furbo e non un atleta migliore degli altri.

Si parla di un mondo sportivo in cui ancora non c’erano controlli e leggi antidoping seri, in cui si incensavano campioni senza troppo chiedersi come certi ciclisti riuscissero a durare solo un anno o ad esistere sportivamente solo nelle 3 settimane del Giro d’Italia o Tour de France.
Contrariamente a quanto accaduto coi media italiani, i francesi incensarono da subito il personaggio Obree, invitato continuamente a eventi mondani e persino ingaggiato in una squadra professionista, successivamente rivelatasi non troppo seria.

La sua storia mi e’ tornata in mente in seguito alla lettura di una guida turistica sulla Scozia, che ne citava le gesta.
Difatti tra gli scozzesi e in genere nel mondo sportivo al di fuori dei luccichii della televisione, la storia di Obree e’ esaltata, citata persino in libri motivazionali.

In tali manuali viene evidenziato come lo scozzese avesse delle grosse capacita’ evidentemente non espresse ma, nel prefiggersi il raggiungimento di un obiettivo considerato impossibile, riesce a tirar fuori da se’ energie nervose e fisiche mai viste. Il tutto grazie ad un continuo allenamento maniacale, alla creativita’ e perseveranza nel non voler seguire schemi convenzionali, specie nella costruzione della propria bicicletta.

Vale la pena quindi di leggere sul suo sito la storia di questo pazzoide con seri problemi depressivi (ha tentato il suicidio 2-3 volte), su Wikipedia, di guardarsi il film (mai tradotto in Italia ovviamente) “The Flying Scotsman“, di leggersi la sua introspettiva biografia o di guardarsi quale video a lui dedicato su Youtube (non prendo marchette per questi link).

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Il Fatto Quotidiano a Londra, riflessioni

Venerdi’ sera, insieme alla mia fidanzata co-gestore del blog e relativa mamma, siamo andati a questo evento organizzato dal Fatto Quotidiano in collaborazione con la Fonderia Oxford.

Il tema del dibattito, disegnato a pennello per i trasmigrati londinesi: si puo’ ritornare in Italia ora che Berlusconi se ne e’ andato e c’e’ Monti?

E’ abbastanza palloso fare il riassunto della serata, per cui, a parte la considerazione che ad assistere erano quasi tutti giovani sotto i 40 anni, entro nel merito dei miei pensieri e opinioni.

L’intervento di Francesca Coin e’ stato decisamente il migliore anche a sentire i decibel dell’applausometro del pubblico: una disamina di statistiche relative alla situazione della ricerca in Italia, spiegate in modo umano ma comunque scientifico, preciso e puntuale. Perfetto il public speaking (altro che Dale Carnegie), capacita’ di sintesi che manco una poesia di Ungaretti, velocita’ di parola che non ha influito sulla chiarezza (delle idee soprattutto) e sul proiettore che e’ andato in standby.

Qui la sua presentazione:

http://www.slideshare.net/fracoin/la-bolla-formativa-in-italia

Il succo (mio) barbaro del suo discorso:

  • in Italia possiamo fare tutte le riforme ridicole o meno che ci pare, i soldi investiti nella ricerca sono comunque troppo pochi;
  • la classe imprenditoriale italiana fa mediamente schifo;
  • in Italia c’e’ una “bolla formativa”: pochi laureati a sentire le statistiche europee, ma comunque troppi rispetto a quanti ne richieda il mercato del lavoro Su questo punto la giovane sociologa e’ stata particolarmente incisiva e ci ha aperto la mente come neanche puo’ un trapano da neurochirurgo).

Credo nessuno potesse opporsi a questi giudizi, infatti tutti hanno applaudito.

Mia ulteriore riflessione personale, molto meno scientifica purtroppo: la riforma Gentile e’ diarrea pura che ha fatto si’ che oggi in Italia si studino molto di piu’ Italiano, Storia, Filosofia, Latino e Greco che Matematica, Fisica, Chimica.

La bilancia della formazione italiana pende decisamente verso le facolta’ umanistiche: troppi veramente sono i laureati in tali materie e non tutti, ovviamente, con 110 e lode; inoltre sono proprio questi i settori, meno provvisti di criteri oggettivi di valutazione, a essere piu’ facilmente soggetti a raccomandazioni e intrallazzi vari.

Ovvio poi che le facolta’ scientifiche siano cose di nicchia, che in alcune facolta’ umanistiche ci siano bisogno di antichi teatri da 2000 posti per far lezione. Oppure che presidenti della Repubblica ex ministri del Tesoro vadano a dire in giro “non ho mai capito niente di matematica” (qui il link non lo metto di proposito).

Normale quindi che l’Italia sia un paese retrogrado, conservatore, corporativo, dove le parole “nuovo” o “diverso” mettono paura, appunto come la ricerca scientifica, che e’ proprio l’estremizzazione di questa voglia di “novita’”, “progresso”, “cambiamento”.

Sono d’accordo quindi,  su questo punto, con la Gelmini scopritrice di tunnell (o il relativo criceto che scrive i comunicati al suo posto) che troppi e inutili sono i laureati di Scienze Politiche, Scienze della Formazione, Scienze della Comunicazione, i laureati in facolta’ improbabili in paesi di campagna, introdotte dalla riforma Moratti (sua ex collega di partito peraltro) anni addietro.

Riguardo alla critica agli imprenditori: non si puo’ non essere d’accordo.
Fare impresa in Italia e’ realmente difficile a causa del peso statale e le imprese statali hanno un’organizzazione perfettamente mafiosa, con la cupola politica a decidere: chi non ha peli sullo stomaco e vuole evadere le tasse e’ incentivato rispetto, ad esempio, ad una startup di IT di giovani smanettoni.

Al contrario, un paese come in Regno Unito, il cui sistema educativo e’ parecchio sbilanciato e mediamente pessimo, permette anche ai piu’ sfigati di aprirsi un’azienda e magari di assumere il laureato italiano che facilmente avra’ una preparazione piu’ ampia del proprio manager.

Infine: nel libro “23 Things They Don’t Tell You About Capitalism” che fa figo leggere in metro di questi tempi, l’economista Ha-Joon Chang  di Cambridge, altrettanto progressista come la sociologa (almeno da quanto ho capito io) e guru di chi oggi ce l’ha con la finanza, invita a riflettere in merito alla proporzione troppo alta di laureati rispetto alla popolazione di un paese e allo sbilanciamento di laureati in alcune facolta’.
Interessante e’ il suo esempio dei medici in Corea del Sud: tutti li’ vogliono far medicina perche’ il medico e’ uno dei lavori piu’ remunerativi e socialmente stabili e protetti, peccato che, rispetto al numero degli studenti di Medicina, coloro che riescono a diventare effettivamente medici sono molto pochi. Meglio se avessero studiato legge, quindi.

Prima della sociologa erano intervenuti i giornalisti e i direttori del Fatto Quotidiano; nulla di nuovo: Travaglio in splendida forma che spiega la situazione politica italiana come neanche la splendida BBC, Giorgio Meletti un po’ impacciato (e’ timido?) ma decisamente incisivo, il solito Padellaro anti-Monti. I loro discorsi, per chi li segue spesso, purtroppo diventano persino un po’ ripetitivi; e’ sempre bene comunque che ci sia qualcuno come loro a rompere ripetutamente le scatole su tv e giornali.

Cazzutissimi sono stati gli interventi di Paolo Falco e Paolo Lucchino (spero di aver azzeccato bene i nomi), a capo delle organizzazioni Fonderia Oxford e QuattroGatti, che hanno fatto una disanima della riforma Fornero, spiegando chiaramente le novita’ che sta portando questa riforma al mercato del lavoro. Roba che in un paese normale sarebbe in tv al posto dell’ennesimo giochino/modellino Fisher Price di Vespa.

A tal proposito non mi e’ piaciuto il fatto che la presentazione abbia volutamente minimizzato la discussione dell’articolo 18 facendo intendere che sia molto piu’ importante pensare alla diminuzione delle tipologie dei contratti di lavoro, alla omogeneizzazione delle tutele sociali e pensionistiche piuttosto che all’abolizione o meno dell’articolo 18, quasi fossero due temi distinti.

In fase di assunzione, non e’ difficile capire quale contratto un imprenditore scelga di proporre al candidato: quello che costa di meno; sia esso uno dei 46 attualmente esistenti  (piu’ il lavoro in nero) o uno tra i 2/3 esistenti in altre realta’.
L’aumento incisivo dei controlli, l’informatizzazione (e qui c’e’ da fare un bell’inciso sulle “fotocopie di Borrelli” per il processo “Calciopoli”. Il magistrato Borrelli fece scansionare ai giornalisti le pagine relative ad un atto del processo: il formato pdf, o persino il pc evidentemente erano considerate invenzioni troppo futuristiche) e velocizzazione dei processi del lavoro, la cultura di un collettivo vaffanculo da parte dei candidati a lavori e stage non pagati (causando quindi in qualche modo un aumento dell’offerta, ottime comunque le proposte del governo attuale a riguardo) sono temi piu’ importanti, a mio modo di vedere, che la selvaggina delle tipologie di contratto.

L’omogeneizzazione delle tutele, poi, coinvolge sicuramente la discussione dell’articolo 18. Se poi non ha cosi’ importanza, perche’ non abolirlo questo dannato articolo 18? Non mi e’ parso insomma quello di minimizzarlo il miglior modo di difendere tale articolo dello Statuto dei Lavoratori.

Un altro intervento di Enrico Sitta, decisamente piu’ politicamente schierato, caratterizzato dall’accento scaciato romano tipico della Garbatella (il che ai miei occhi e soprattutto orecchie e’ un punto a favore, intendiamoci), ha proposto il salario minimo garantito come panacea a molti mali dell’Italia. Visto il successo che tale strumento ha avuto altrove, non si puo’ non essere d’accordo.
Peccato che spesso questa garanzia sia il materasso sociale messo sotto alla finestra metaforica del licenziamento libero da parte delle aziende. Insomma un’analisi piu’ approfondita stile sociologa-di-prima riguardo alla compatibilita’ tra articolo 18 e salario minimo non avrebbe fatto male.

La risposta al tema della discussione c’e’ stata data da un 44enne dall’accento sardo.

Il tizio, che ha preso parola nel momento del Q&A, ha mostrato un certo livore nei confronti dell’Italia, in quanto, a causa della fusione dell’Enpals nell’Inps, avrebbe perso un anno di contributi pensionistici. Questo, insieme ad altre sue vicende lavorative, l’avrebbe convinto ad andarsene dall’Italia alla ricerca di un qualsiasi lavoro come lavapiatti a Londra per ricominciare una nuova vita e una nuova carriera lavorativa.

La vena incazzata sul collo non faceva che aumentare l’emozione (sua e di chi lo stava ascoltando) del momento, calata sull’Old Cinema della Westminster University dove si teneva l’incontro.

La riflessione che e’ scaturita in me, dopo aver sentito il suo sfogo, verte sul fatto che dall’Italia, tutt’ora, non scappano solamente i laureati, i cosiddetti “cervelli”, per motivi di mancata programmazione e cattiva gestione  o supervisione di mercato del lavoro e universita’. Non c’e’ insomma solo questa nuova tipologia di emigrazione, tanto discussa e banalizzata sui telegiornali nostrani.

Difatti, ancora, a distanza di 100 anni dallo sbarco di mio bisnonno minatore ad Ellis Island, troppi sono coloro che, ancora, senza qualifiche e bastonati dallo schifo italiano, emigrano umilmente a cercar lavoro come lavapiatti, camerieri, baby sitter, cuochi, camionisti e via dicendo.

A prescindere da quello che un governo proponga, occorrerebbero comunque decenni per cambiare la cultura corruttiva, la mentalita’ provinciale e privatistica di una comunita’, quella italiana, che continua a votare, o meglio tifare calcisticamente, gli stessi politici da decenni senza un minimo di spirito critico, per poi lamentarsene in modo ridicolo.

“Scappate” ha urlato questo nuovo trasmigrato sardo, “il piu’ presto possibile”.

Come non essere d’accordo con lui?

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Bancomat londinesi

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Applausi al “civic-minded local resident”. E che stile!

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That’s what I miss of Italy

Visto che vanno tanto di moda le liste, eccovi qui cosa mi manca dell’Italia!

I colori.

So che e’ colpa mia perche’ vivo a Londra, pero’ ogni volta che atterro a Ciampino, la prima cosa che noto e’ il colore blu intenso del cielo sovrastato dai pini altissimi, con cicale incazzate che sembrano quasi volerti accogliere. Tutte cose che si apprezzano realmente dopo mesi di tempo inclemente.

Pino domestico

La curiosita’ e l’espressivita’

E’ tipico delle persone italiane esser curiose, andare a scandagliare il dettaglio impiccione  di ogni discorso, non lasciare mai le frasi in sospeso, rispondere con facce strane a domande non capite, interagire con le persone aprendosi molto.

E’ noto anche come veniamo presi in giro altrove (e spesso guardati strani) per la nostra gestualita’ (hand gesture), a causa di qualche banale comico, ma sembra che esprimere le proprie emozioni tramite il corpo sia persino cosa buona e giusta, apprezzata a livello scientifico.

Frutta e verdura.

Contrariamente a quanto si dice, non e’ difficile trovare buon cibo italiano altrove:  costa un po’ di piu’ e non c’e’ ampia scelta, pero’ in qualsiasi supermercato c’e’ sempre uno scaffale in cui trovare prodotti nostrani, spesso in versione improbabile ma divertente (tipo il famoso indecente sugo alla Bolognese).
Il reale problema, pero’, e’ nella qualita’ di frutta e verdura: non se ne trovano di buone a meno che non si vada a Borough Market a Londra, dove vengono importante dagli italiani di turno e costano il quadruplo.

Le arance del generico supermercato hanno difatti una succulenza improbabile, le mele sono piccole e micragnose, le pere dure e dal sapor di frigo. Impossibile poi trovare frutta di stagione decente: in estate non esistono peschenoci, persiche, susine, prugne, cocomeri, meloni, albicocche. O meglio, se esistono sono probabilmente gli stessi frutti che erano stati esposti l’anno prima, rimasti intatti a causa degli onnipresenti conservanti.

Il cocomero neozelandese e’ infatti un must degli scaffali inglesi, onnipresente in tutte le stagioni: mai visto qualcuno metterselo nel carrello e comprarlo.

CocomeroPer la verdura idem: ha prezzi agghiaccianti e difficile trovare le nostre varieta’ italiane. I pomodori non sono mai rossi sul serio, le melanzane sono tutte perfettamente uguali e insapori, le zucchine fatte con lo stampino in qualche triste serra riscaldata inglese, e via cosi’.

Anche qui la caratteristica mancante e’ il colore: frutta e verdura sono semplicemente tristi e brutte.

La bellezza.

Quando si viaggia alla scoperta di luoghi nuovi o ci si stabilisce definitivamente al di fuori dell’Italia, non puo’ non stupire occhi quanto le persone, le strade, gli appartamenti, i palazzi, le macchine, i monumenti siano decisamente piu’ brutti rispetto alla realta’ italiana.

Attenzione, non si parla di “ordine e pulizia”, che di certo influiscono nel giudizio, quanto di bellezza e attenzione al dettaglio nel curarsi l’estetica, nel rifinire l’appartamento in cui si abita, nel non fare pecionate improbabili per sistemare una strada, nel non costruire grattacieli ultramoderno accanto a chiese  del decimo secolo.

Vogliamo parlare di musei e monumenti?

A tutti sara’ capitato di andare a vedere la chiesa o il monumento piu’ importante della tal citta’ straniera e di rimanere delusi, spesso anche per l’atteggiamento un po’ snob e arrogante (ma fondamentalmente giusto) di coloro che hanno gia’ visto bellezze simili nella propria patria.
Valutare quanto poco vengano valorizzate queste bellezze in Italia rispetto all’estero e’ un altro argomento. Triste, purtroppo.

Uscire, le piazze

Altra peculiarita’ straordinaria della nostra cultura e’ in concetto di piazza: luogo atto al riunirsi come comunita’, incontrarsi e cazzeggiare con gli amici per una birra, passeggiare romanticamente con il partner.
E’ comune, dalle nostre parti, darsi un appuntamento del tutto generico (“verso le 22 davanti alla balaustra”), aspettare che tutti gli amici arrivino, scegliere il locale di riferimento per la serata oppure, comunemente, passeggiare nei dintorni e farsi venire un’idea sul momento. Cosi’ succede ai romani, ad esempio, quando decidono di incontrarsi a Piazza Trilussa,

Piazza Trilussa

per poi lasciarsi coinvolgere dall’atmosfera movimentata delle stradine di Trastevere e scegliere il locale in base al casino che c’e’ dentro. Cosa un po’ difficile da fare qui a Londra, ad esempio, dove l’atmosfera plumbea costringe sempre a programmarsi la serata in anticipo e a scegliersi il ristorante o il locale in cui andare qualche giorno  prima e dove il tempo e’ quel che e’ e non facilita’ le passeggiate serali.

E a voi? Cosa vi manca della vostra realta’ italiana?

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Meritocrazia

Sono capitato sull’ennesimo geniale video di Bruno Bozzetto che gia’ ci aveva regalato altre perle del genere.

Difficile non esser d’accordo e non rimanere con l’ennesimo amaro sorriso.

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Speakers’ Corner

E’ il luogo delle incazzature per eccellenza, delle discussioni piu’ fanatiche e improbabili, dei disperati che cercano qualcuno pronto all’ascolto e qui lo trovano.
E’ lo Speakers’ corner, al confine di Hyde Park, Londra.

E’ qui che puoi immaginare persone del calibro dialettico di  Lenin, Marx, Orwell aver discusso anni addietro. L’energia e la follia sono le stesse di sempre:

  • predicatori di improbabili sette evangeliche che cantano a squarciagola canzoni country;
  • i noiosissimi cartelli pro e contro ebrei;
  • musulmani che vedono in Allah la risposta a qualsiasi domanda (scroccare un Corano e’ facile facile); di solito sono circondati da bulli inglesi che comninciano a costruire un discorso logico ma che obnubilati dalla birra del picnic finiscono per ripetere solo “fucking”;
  • anarchici con stella a cinque punte e Coca Cola in mano che discutono di ogni fottuto dettaglio delle trame malvagie delle teorie neoimperiali capitaliste;
  • arzille (e assatanate di uomini aggiungo io) signore con bambole-feto in mano che ti spiegano quanto e’ vivo un bambino dopo un aborto al secondo mese;
  • stregoni africani che se la prendono con la classificazione per razze umane della polizia britannica, etc.

Per chi viene la prima volta, l’atmosfera e’ particolare: a tratti estremamente goliardica; in alcuni momenti, invece, il fanatismo ha la peggio e la rissa sembra essere imminente; nella maggior parte dei casi, comunque, e’ la noia a vincere.

Per il turista o per chi ama Hyde Park e’ comunque un must, un evento da non perdere la domenica pomeriggio: impossibile non farsi coinvolgere da tale follia e simpatia, dalla civilta’ di vedere persone con teste (e barbe) totalmente differenti discutere di qualsiasi cosa, di qualsiasi argomento.

A tutti, difatti, e’ permesso mettersi sopra uno scatolone e cercare di far ascoltare i propri deliri ai poveri passanti di turno (nessuna segnalazione alla questura e’ richiesta, per dire).

Difficile allontanarsi senza aver commentato, anche da soli, l’argomento in discussione.

Il multiculturalismo e le diversita’ vengono esaltati:  in questo angolo i “diversi” dicono la loro: magari qualcuno a forse di prenderli in giro prima o poi li considerera’ normali e avremo un fanatico in meno a romperci simpaticamente i timpani.

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Spie inglesi e omerta’ italiana

Attenzione, questo e’ un post che generalizza e critica a caso.

Chi rompe le scatole con un “Che palle, il solito commento negativo sull’Italia che generalizza su tutto” puo’ andarsi a vedere le puntate di Colpo Grosso spagnole e sfogarsi li’, grazie. Fine preambolo.

Capita a tutti di avere un periodo un po’ nervoso nella propria vita.
Non a tutti, pero’, capita di essere rimproverati dalla propria azienda perche’ si prendono a calci le porte dei corridoi!

Successe anni fa in quel di Londra ad un mio amico informatico italiano, che chiameremo Arturo nel seguito del post.

Questo Arturo insomma stava affrontanto un periodo difficile: non era soddisfatto di alcune modalita’ di lavoro all’interno dell’azienda per cui lavorava e soprattutto non riusciva a risolvere un cavolo di bug che lo stava tenendo occupato per settimane (solo chi programma puo’ capire lo stato di frustrazione a cui puo’ portare cio’).

Fire door

Porta mangiafuoco (da alex012, http://www.flickr.com/photos/alex012/4144996261/)

La storia e’ semplice e stupida e finisce con una morale, manco fosse una favola di Esopo.

All’interno dell’azienda, per motivi di sicurezza, c’erano porte mangiafuoco ovunque; per raggiungere il bagno distante due metri dalla postazione di lavoro Arturo doveva spingerne quattro, alcune anche un po’ bastarde: in alcuni casi per aprirle dovevi aspettare che quella precedente si chiudesse, in altri ci si sfragnava letteralmente (in inglese “bruise”, in italiano non lo so!) la mano, lasciando tracce di sangue ovunque.

Nell’aprire queste porte infatti una mano era solitamente impegnata a tenere un caffe’ (uno di quei tazzoni melmosi che tanto piacciono agli inglesi e anche a me) e l’altra almeno un blocco d’appunti, necessario per gli storicamente inutili “team meeting”. Inutile contare le orride macchie sulla lercia, onnipresente moquette: ci si poteva tranquillamente giocare a campana, volendo, il tracciato gia’ c’era.

Sempre in nome della (mancata) sicurezza l’unica porta che doveva essere veramente chiusa e che invece era sempre aperta era quella della cucina, li’ dove tra distributori di barrette caloriche, tubi che perdevano acqua e fili scoperti ovunque forse un minimo di accortezza era realmente necessario.

I calci alle porte insomma erano piu’ che altro una sfida contro l’umana natura e le norme di sicurezza aziendali: Arturo le odiava perche’ erano li’ in mezzo alla via.

Questa la premessa, ora il fatto.

Dopo qualche tempo di amichevoli lamentele da parte dei colleghi, il manager del gruppo inoltro’ ad Arturo un’email di un collega del piano inferiore.
Il tizio in pratica lo aveva denunciato scrivendo per oggetto dell’email le sue generalita’ (“COGNOME NOME”) alle risorse umane e al mio manager. Mai il mio amico era stato rimproverato per lavoro in vita sua: era stato fino a quel momento impeccabile a livello di orari, correttezza aziendale, comportamento.

Dopo una buona ora di vergogna a fissare il monitor del pc come un ebete senza dir niente, Arturo rispose ammettendo le proprie colpe ed esplicitando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la propria deficienza, follia e stupidita’.

Per inciso, il capo era tornato a casa in Sud America per tre settimane, l’email era stata mandata a lui il primo giorno di assenza dal lavoro: in pratica questa specie di gioco era continuata per tre settimane nonostante fossero gia’ state avvisate 3-4 persone.

Nel discutere la cosa con Arturo, la cosa che ci fece piu’ riflettere, pero’, fu la gestione dell’incidente da parte del tizio, decisamente inaspettata per il nostro modo di pensare. Difatti questo collega non venne mai a parlare direttamente con Arturo, non fece mai sapere in modo diretto che la parete (che comunque era di legno marcio) della sua stanza tremava con sussulto tellurico ad ogni suo passaggio.

Nel proprio paese sarebbe stato magari affrontato burberamente, rimbrottato anche pesantemente ma assai difficilmente qualcuno si sarebbe preso la briga di coinvolgere le alte sfere per situazioni del genere, citando fatti in modo preciso e accurato, mettendo anche a rischio la permanenza in azienda o perlomeno facendo rischiare un possibile ammonimento.

Ragionando su questa e ad altre situazioni simili, e quindi generalizzando un po’ a caso come tanto e’ bello fare, ne abbiamo dedotto che di norma gli inglesi tendono a risolvere le proprie diatribe facendo riferimento a un’entita’ superiore generalmente riconosciuta dalle parti in causa, sia essa il manager, la mamma, lo stato, il gestore del condominio.
Difficile, ad esempio, che un tuo vicino di casa venga da te a lamentarsi per il troppo rumore della tua festa di compleanno: chiama direttamente la polizia, che magari poi chiude benevolmente la questione, ma comunque un minimo di timore te lo incute.

Ovviamente questo solo al di fuori della realta’  dei pub: dalle 17.30 in poi vale solo la legge del piu’ forte (o quella di chi rimane in piedi dopo la quinta pinta).

C’e’ insomma tutta una sociologia con relative implicazioni legislative intorno al whistleblowing, in pratica il “fare la spia”. Persino sui contratti di lavoro, difatti, i dipendenti vengono invitati a fare i bastardi e a comunicare ai propri superiori eventuali mancanze o situazioni gravi create dai propri colleghi, il tutto con garanzia di anonimato e protezione della spia (una specie protezione dei pentiti in piccolo).

Whistleblowing

Il paragone con le nostre realta’ italiane e’ semplice ora: ecco, quante volte vi capita che la vostra spiata al capo, il vostro alzare la voce contro un torto vi si ritorca contro?

Quante volte coloro che denunciano un problema vengono innanzitutto scoperti (d’altronde c’e’ sempre la spia della spia!) e sommersi dai:
“Ma non fa nulla! E’ nervoso perche’ ieri la Roma ha perso”,
“Ha fatto una cavolata, ma mica gli vorrai far passare dei guai?”,
“E’ una cosa che hanno fatto tutti nella vita, tu ti fai i fatti tuoi ed e’ meglio per tutti no?”.
“Ha moglie e figli, lascialo stare e’ un po’ depresso perche’ ha scoperto che la moglie gli mette le corna”, etc. etc.

La parola spia fa effettivamente un po’ schifo, ma che dire della parola omerta’?

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Tempo di elezioni…

Per la prima volta ho votato per un’amministrazione in uno stato estero!
E’ molto fico sentirsi parte della citta’ in cui si vive e decidere quindi chi pulira’ le umane escrezioni a base di London Pride davanti al portone di casa.

Ecco come e’ stato difficile votare per le amministrative in quel di Londra:

  • non ci sono carabinieri all’ingresso;
  • non ci sono manifesti di partiti appiccicati ovunque all’interno del seggio (e neanche fuori in giro per la citta’!);
  • nessuno ti chiede la carta di identita’ ma un semplice “What’s your name”. Una specie di certificato elettorale e’ sufficiente per votare, ma non e’ neanche obbligatorio portarlo quindi se lo perdi non devi farti una ventina di chilometri per riaverlo;
  • nessuna scocciatura con matite copiative o menate del genere (spezzate o meno): dubito che quelle che ho usato siano state addirittura vere matite copiative;
  • “ballot paper”, schede elettorali, stampate su carta semplice che non vanno ripiegate prima di rimetterle nell’urna (che per inciso e’ una soltanto per tutte le schede);
  • cabine elettorali aperte e una accanto all’altra, senza creazione artificiosa di bunker antiatomici (impossibile per un malandrino scattare una foto e non essere notati per dire) in cui lasciare segni in codice per il mafioso/politico di turno;
  • si vota a crocette e non si scrive mai il nome del candidato (o meglio il soprannome) per dare indicazioni al mafioso/politico di turno!

Se vi va bene, potreste anche intrattenere una conversazione con signore di qualche partito all’ingresso (cosa illegale in Italia) che vi parleranno di Roma, di Portofino e di quanto sole c’e’ in Italia (ndr, sono tre settimane che il cielo e’ coperto da far schifo qua).

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Nerd e dolci

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Andare agli hackaton londinesi per scroccare leccornie del genere…

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