Venerdi’ sera, insieme alla mia fidanzata co-gestore del blog e relativa mamma, siamo andati a questo evento organizzato dal Fatto Quotidiano in collaborazione con la Fonderia Oxford.
Il tema del dibattito, disegnato a pennello per i trasmigrati londinesi: si puo’ ritornare in Italia ora che Berlusconi se ne e’ andato e c’e’ Monti?
E’ abbastanza palloso fare il riassunto della serata, per cui, a parte la considerazione che ad assistere erano quasi tutti giovani sotto i 40 anni, entro nel merito dei miei pensieri e opinioni.
L’intervento di Francesca Coin e’ stato decisamente il migliore anche a sentire i decibel dell’applausometro del pubblico: una disamina di statistiche relative alla situazione della ricerca in Italia, spiegate in modo umano ma comunque scientifico, preciso e puntuale. Perfetto il public speaking (altro che Dale Carnegie), capacita’ di sintesi che manco una poesia di Ungaretti, velocita’ di parola che non ha influito sulla chiarezza (delle idee soprattutto) e sul proiettore che e’ andato in standby.
Qui la sua presentazione:
http://www.slideshare.net/fracoin/la-bolla-formativa-in-italia
Il succo (mio) barbaro del suo discorso:
- in Italia possiamo fare tutte le riforme ridicole o meno che ci pare, i soldi investiti nella ricerca sono comunque troppo pochi;
- la classe imprenditoriale italiana fa mediamente schifo;
- in Italia c’e’ una “bolla formativa”: pochi laureati a sentire le statistiche europee, ma comunque troppi rispetto a quanti ne richieda il mercato del lavoro Su questo punto la giovane sociologa e’ stata particolarmente incisiva e ci ha aperto la mente come neanche puo’ un trapano da neurochirurgo).
Credo nessuno potesse opporsi a questi giudizi, infatti tutti hanno applaudito.
Mia ulteriore riflessione personale, molto meno scientifica purtroppo: la riforma Gentile e’ diarrea pura che ha fatto si’ che oggi in Italia si studino molto di piu’ Italiano, Storia, Filosofia, Latino e Greco che Matematica, Fisica, Chimica.
La bilancia della formazione italiana pende decisamente verso le facolta’ umanistiche: troppi veramente sono i laureati in tali materie e non tutti, ovviamente, con 110 e lode; inoltre sono proprio questi i settori, meno provvisti di criteri oggettivi di valutazione, a essere piu’ facilmente soggetti a raccomandazioni e intrallazzi vari.
Ovvio poi che le facolta’ scientifiche siano cose di nicchia, che in alcune facolta’ umanistiche ci siano bisogno di antichi teatri da 2000 posti per far lezione. Oppure che presidenti della Repubblica ex ministri del Tesoro vadano a dire in giro “non ho mai capito niente di matematica” (qui il link non lo metto di proposito).
Normale quindi che l’Italia sia un paese retrogrado, conservatore, corporativo, dove le parole “nuovo” o “diverso” mettono paura, appunto come la ricerca scientifica, che e’ proprio l’estremizzazione di questa voglia di “novita’”, “progresso”, “cambiamento”.
Sono d’accordo quindi, su questo punto, con la Gelmini scopritrice di tunnell (o il relativo criceto che scrive i comunicati al suo posto) che troppi e inutili sono i laureati di Scienze Politiche, Scienze della Formazione, Scienze della Comunicazione, i laureati in facolta’ improbabili in paesi di campagna, introdotte dalla riforma Moratti (sua ex collega di partito peraltro) anni addietro.
Riguardo alla critica agli imprenditori: non si puo’ non essere d’accordo.
Fare impresa in Italia e’ realmente difficile a causa del peso statale e le imprese statali hanno un’organizzazione perfettamente mafiosa, con la cupola politica a decidere: chi non ha peli sullo stomaco e vuole evadere le tasse e’ incentivato rispetto, ad esempio, ad una startup di IT di giovani smanettoni.
Al contrario, un paese come in Regno Unito, il cui sistema educativo e’ parecchio sbilanciato e mediamente pessimo, permette anche ai piu’ sfigati di aprirsi un’azienda e magari di assumere il laureato italiano che facilmente avra’ una preparazione piu’ ampia del proprio manager.
Infine: nel libro “23 Things They Don’t Tell You About Capitalism” che fa figo leggere in metro di questi tempi, l’economista Ha-Joon Chang di Cambridge, altrettanto progressista come la sociologa (almeno da quanto ho capito io) e guru di chi oggi ce l’ha con la finanza, invita a riflettere in merito alla proporzione troppo alta di laureati rispetto alla popolazione di un paese e allo sbilanciamento di laureati in alcune facolta’.
Interessante e’ il suo esempio dei medici in Corea del Sud: tutti li’ vogliono far medicina perche’ il medico e’ uno dei lavori piu’ remunerativi e socialmente stabili e protetti, peccato che, rispetto al numero degli studenti di Medicina, coloro che riescono a diventare effettivamente medici sono molto pochi. Meglio se avessero studiato legge, quindi.
Prima della sociologa erano intervenuti i giornalisti e i direttori del Fatto Quotidiano; nulla di nuovo: Travaglio in splendida forma che spiega la situazione politica italiana come neanche la splendida BBC, Giorgio Meletti un po’ impacciato (e’ timido?) ma decisamente incisivo, il solito Padellaro anti-Monti. I loro discorsi, per chi li segue spesso, purtroppo diventano persino un po’ ripetitivi; e’ sempre bene comunque che ci sia qualcuno come loro a rompere ripetutamente le scatole su tv e giornali.
Cazzutissimi sono stati gli interventi di Paolo Falco e Paolo Lucchino (spero di aver azzeccato bene i nomi), a capo delle organizzazioni Fonderia Oxford e QuattroGatti, che hanno fatto una disanima della riforma Fornero, spiegando chiaramente le novita’ che sta portando questa riforma al mercato del lavoro. Roba che in un paese normale sarebbe in tv al posto dell’ennesimo giochino/modellino Fisher Price di Vespa.
A tal proposito non mi e’ piaciuto il fatto che la presentazione abbia volutamente minimizzato la discussione dell’articolo 18 facendo intendere che sia molto piu’ importante pensare alla diminuzione delle tipologie dei contratti di lavoro, alla omogeneizzazione delle tutele sociali e pensionistiche piuttosto che all’abolizione o meno dell’articolo 18, quasi fossero due temi distinti.
In fase di assunzione, non e’ difficile capire quale contratto un imprenditore scelga di proporre al candidato: quello che costa di meno; sia esso uno dei 46 attualmente esistenti (piu’ il lavoro in nero) o uno tra i 2/3 esistenti in altre realta’.
L’aumento incisivo dei controlli, l’informatizzazione (e qui c’e’ da fare un bell’inciso sulle “fotocopie di Borrelli” per il processo “Calciopoli”. Il magistrato Borrelli fece scansionare ai giornalisti le pagine relative ad un atto del processo: il formato pdf, o persino il pc evidentemente erano considerate invenzioni troppo futuristiche) e velocizzazione dei processi del lavoro, la cultura di un collettivo vaffanculo da parte dei candidati a lavori e stage non pagati (causando quindi in qualche modo un aumento dell’offerta, ottime comunque le proposte del governo attuale a riguardo) sono temi piu’ importanti, a mio modo di vedere, che la selvaggina delle tipologie di contratto.
L’omogeneizzazione delle tutele, poi, coinvolge sicuramente la discussione dell’articolo 18. Se poi non ha cosi’ importanza, perche’ non abolirlo questo dannato articolo 18? Non mi e’ parso insomma quello di minimizzarlo il miglior modo di difendere tale articolo dello Statuto dei Lavoratori.
Un altro intervento di Enrico Sitta, decisamente piu’ politicamente schierato, caratterizzato dall’accento scaciato romano tipico della Garbatella (il che ai miei occhi e soprattutto orecchie e’ un punto a favore, intendiamoci), ha proposto il salario minimo garantito come panacea a molti mali dell’Italia. Visto il successo che tale strumento ha avuto altrove, non si puo’ non essere d’accordo.
Peccato che spesso questa garanzia sia il materasso sociale messo sotto alla finestra metaforica del licenziamento libero da parte delle aziende. Insomma un’analisi piu’ approfondita stile sociologa-di-prima riguardo alla compatibilita’ tra articolo 18 e salario minimo non avrebbe fatto male.
La risposta al tema della discussione c’e’ stata data da un 44enne dall’accento sardo.
Il tizio, che ha preso parola nel momento del Q&A, ha mostrato un certo livore nei confronti dell’Italia, in quanto, a causa della fusione dell’Enpals nell’Inps, avrebbe perso un anno di contributi pensionistici. Questo, insieme ad altre sue vicende lavorative, l’avrebbe convinto ad andarsene dall’Italia alla ricerca di un qualsiasi lavoro come lavapiatti a Londra per ricominciare una nuova vita e una nuova carriera lavorativa.
La vena incazzata sul collo non faceva che aumentare l’emozione (sua e di chi lo stava ascoltando) del momento, calata sull’Old Cinema della Westminster University dove si teneva l’incontro.
La riflessione che e’ scaturita in me, dopo aver sentito il suo sfogo, verte sul fatto che dall’Italia, tutt’ora, non scappano solamente i laureati, i cosiddetti “cervelli”, per motivi di mancata programmazione e cattiva gestione o supervisione di mercato del lavoro e universita’. Non c’e’ insomma solo questa nuova tipologia di emigrazione, tanto discussa e banalizzata sui telegiornali nostrani.
Difatti, ancora, a distanza di 100 anni dallo sbarco di mio bisnonno minatore ad Ellis Island, troppi sono coloro che, ancora, senza qualifiche e bastonati dallo schifo italiano, emigrano umilmente a cercar lavoro come lavapiatti, camerieri, baby sitter, cuochi, camionisti e via dicendo.
A prescindere da quello che un governo proponga, occorrerebbero comunque decenni per cambiare la cultura corruttiva, la mentalita’ provinciale e privatistica di una comunita’, quella italiana, che continua a votare, o meglio tifare calcisticamente, gli stessi politici da decenni senza un minimo di spirito critico, per poi lamentarsene in modo ridicolo.
“Scappate” ha urlato questo nuovo trasmigrato sardo, “il piu’ presto possibile”.
Come non essere d’accordo con lui?